LA FAMIGLIA DEGLI OMINIDI
L'organismo
umano è un prodotto dell'evoluzione biologica; e il prodotto più
alto, dal punto di vista psichico, della vita terrestre. Fra gli animali, l'uomo
si distingue per l'elevatezza delle sue facoltà mentali, per il suo
linguaggio che esprime una complessità di pensiero che giunge
all'astrazione, per l'uso delle mani con le quali si costruisce un mondo che
è una sovrastruttura di quello naturale. L'uomo è cosciente,
l'uomo pensa e crea, è il protagonista di una evoluzione sociale,
culturale e tecnologica che è facile magnificare come proveniente da
un'ispirazione metafisica, mentre alla scienza appare come una espressione
dell'evoluzione biologica.
La vecchia polemica fra
spiritualismo e materialismo non ha più ragione di esistere perché
le scoperte scientifiche sono una continua dimostrazione del nostro abisso di
ignoranza di fronte all'universo e ci insegnano l'umiltà: la materia, la
natura, la vita conservano intatta la loro essenza misteriosa. E per renderci
conto di ciò, oggi non abbiamo bisogno di essere sollecitati da nessuna
speculazione filosofica, da nessuna cosmologia
aprioristica.
È con questo animo, umilmente, che
da quasi un secolo squadre di ricercatori compiono scavi in tutti i continenti,
fra le ossa fossilizzate di animali estinti, per gettare qualche sprazzo di luce
sul mistero delle nostre origini. La psicoantropologia, cioè la scienza
che studia gli uomini preistorici, tenta di ricostruire sulla base dei suoi
reperti (quasi sempre crani, e il più delle volte incompleti) la
struttura scheletrica dei nostri progenitori. Ma poco o nulla ci sa dire sul
loro grado di evoluzione mentale: questa si può dedurre soltanto dal
ritrovamento di manufatti (oggetti di pietra, di osso, di argilla, ecc.), di
tracce di abitazioni (caverne, palafitte) o di attività particolari
(focolari, tombe, incisioni, pitture) che dimostrano l'esistenza di
attività intelligenti di tipo già
umano.
Le scoperte recenti hanno smentito due
opinioni molto diffuse: l'uomo non discende dalla scimmia e i suoi antenati
vissero non decine o centinaia di migliaia, ma milioni di anni fa. Le grandi
scimmie oggi viventi, cioè l'orango, il gorilla e lo scimpanzè,
appartengono alla famiglia dei pongidi; invece l'uomo attuale e quello
preistorico fanno parte di un'altra famiglia, quella degli ominidi. Pongidi e
ominidi avrebbero origine da un ceppo comune, ma risalente a oltre 35 milioni di
anni fa. Si tratta di una supposizione, perché i resti di quel remoto
antenato dei pongidi e degli ominidi non sono stati ancora
individuati.
Secondo le interpretazioni
scientifiche più attuali, fra i 30 e i 35 milioni di anni fa, dal ceppo
comune si staccarono due rami principali, l'uno rappresentato dal propliopiteco
che diede origine agli ominidi, l'altro dal driopiteco dal quale derivarono le
grandi scimmie. La scoperta del propliopiteco, avvenuta a Fayum, in Egitto,
è del 1962; quella del driopiteco, a Saint Gaudens, in Francia, nel 1856,
seguita da molte altre consimili in Cina, India, Russia, Spagna e Kenia negli
ultimi 110 anni.
Dopo il propliopiteco, nelle
ricerche dei presunti progenitori dell'umanità c'è un vuoto di
oltre 20 milioni di anni. Dopo di che si incontrano, circa 14 milioni di anni
fa, il ramapiteco scoperto nel 1932 a Siwalik, in India, e nel 1962 nel Kenia; e
circa 12 milioni di anni fa l'oreopiteco, trovato nel 1958 in Toscana. Ma si
tratta di esseri pre-umani.
Per incontrare qualche
primo indizio di attività intelligente bisogna fare un salto di altri 10
milioni di anni, fino all'Homo abilis, i cui resti, che risalivano a circa
1.800.000 anni fa, furono rinvenuti nel 1960, a Olduvai nel Tanganika, da Louis
S.B. Leakey. Quel rinvenimento fu la seconda bomba che Leakey gettò fra
gli studiosi della preistoria umana. La prima era costituita dalla scoperta
dello zinjantropo, avvenuta nel 1959, anch'essa ad Olduvai, vissuto circa
1.750.000 anni or sono. Lo zinjantropo appartiene al gruppo degli
australopiteci, i cui resti furono scoperti più di 30 anni fa a Taung,
nell'attuale Botswana, e in seguito in varie regioni africane, dal Transvaal al
Kenia. Sembrava che l'australopiteco non fosse più vecchio di 700 mila
anni; invece la scoperta dello zinjantropo lo riportava indietro di ben un
milione di anni.
Secondo molti antropologi, l'Homo
abilis sarebbe una varietà di australopiteco. Ma Leakey lo ritiene dotato
di caratteristiche più umane, il progenitore più antico e forse
più diretto dell'uomo vero e proprio. La principale argomentazione di
Leakey si basa sulla forma del cranio: infatti, mentre il cranio dello
zinjantropo (e degli altri australopiteci) è sormontato da una cresta
spessa simile a quella del gorilla e ha una mascella potente, il cranio
dell'Homo abilis è rotondo, molto simile a quello dell'uomo attuale,
benché più piccolo. Inoltre la capacità cerebrale dello
zinjantropo è di 530 centimetri cubici, mentre quella dell'Homo abilis
è di circa 700 centimetri cubici, cioè la metà della
capacità cerebrale media dell'uomo attuale. Anche negli australopiteci
meno antichi dello zinjantropo essa si aggira sui 600:_700 centimetri cubici.
Un'altra constatazione importante è che sia l'Homo abilis, sia lo
zinjantropo e gli altri australopiteci erano già bipedi, ossia che
già circa 2 milioni di anni fa essi avevano la stazione eretta che
è caratteristica dell'uomo.
E c'è di
più: questi ominidi rappresentano la fase di transizione fra l'animale e
l'umano, perciò si possono considerare come i primi rappresentanti
dell'umanità. La loro capacità cerebrale era, come si è
detto, circa la metà di quella dell'uomo attuale, cioè
paragonabile a quella del gorilla; ma superava sensibilmente quella dello
scimpanzè (450 centimetri cubici) del quale avevano pressappoco le stesse
dimensioni. Anche la loro dentatura presentava, accanto a caratteristiche
primitive, alcune conformazioni già indiscutibilmente
umane.
Gli indizi della loro attività
intelligente - un primo barlume di quello che sarà il formidabile
sviluppo del pensiero umano - sono costituiti dalle ossa di animali e dalle
pietre, le une e le altre intenzionalmente scheggiate, trovate nelle stesse
regioni e negli stessi terreni che contenevano i loro resti. Quelle ossa e
quelle pietre molto rozzamente lavorate formano la cosiddetta pebble culture
(cultura del ciottolo) e sono gli utensili più antichi fino a oggi
conosciuti. Sembra non esservi alcun dubbio che l'Homo abilis e gli
australopiteci furono i primi artigiani. E benché la loro capacità
cerebrale fosse ancora molto inferiore a quella dell'uomo attuale, essi
rappresentano una tappa decisiva, forse quella iniziale nel cammino che conduce
all'umanità.
Risalendo ancora l'albero
genealogico della specie umana, si trova, fra i 600 mila e i 300 mila anni fa,
il pitecantropo, il cui primo esemplare fu scoperto nel 1891 nell'isola di
Giava; molti altri ne sono stati trovati fino ad oggi. Uno di essi è
stato scoperto di recente in Ungheria, presso Budapest: questo reperto dimostra
che il gruppo dei pitecantropi era diffuso non solo nelle regioni calde
dell'Asia e dell'Africa centrale, ma anche in Europa nel pieno del periodo
glaciale, precisamente durante la terzultima glaciazione cioè da un
milione a 300 mila anni fa. Il pitecantropo aveva una tecnica già
relativamente evoluta per scheggiare le pietre e disponeva di una grande
conquista: faceva uso del fuoco.
Dopo il
pitecantropo viene l'uomo di Neanderthal che visse da circa 300 mila a circa 10
mila anni fa in tutta Europa e in molte regioni asiatiche e africane. La sua
prima scoperta avvenne nel 1856 a Neanderthal, presso Düsseldorf, in
Germania. Questo ominide ha una fama di «bestialità» che risale
al secolo scorso e che rievoca le accese polemiche fra evoluzionisti e
antievoluzionisti. I numerosi ritrovamenti avvenuti negli ultimi 100 e
più anni permettono di ricostruire il suo aspetto in modo abbastanza
preciso.
L'uomo di Neanderthal era relativamente
basso (da m. 1,55 a m. 1,60) e aveva una stazione del tutto eretta. Il suo
cranio era grosso, largo, basso, con un occipite molto sviluppato, e aveva un
volume cerebrale da 1.300 a 1.600 centimetri cubici, corrispondente a quello
dell'uomo attuale. Ma il cervello presentava caratteristiche ancora primitive:
era piuttosto appiattito, meno sviluppato nella regione frontale, più
largo in quelle temporali e occipitale. Questa struttura cerebrale mostra che le
aree sensorie e motorie predominavano su quelle frontali dette
«associative». Si può quindi ritenere che nell'uomo di
Neanderthal le facoltà intellettuali fossero minori che nell'uomo
attuale. Ma il suo sviluppo cerebrale doveva essere evoluto a sufficienza per
consentirgli di dominare largamente gli animali (infatti la sua principale
attività era la caccia) pur essendo, sul piano dell'istinto, più
vicino a essi di quanto lo sia l'uomo
attuale.
Benché perfettamente eretto,
proporzionato e dotato di un cervello paragonabile al nostro, l'uomo di
Neanderthal era molto diverso da noi come aspetto esteriore, soprattutto a causa
della grossa testa, della nuca molto sporgente e del mento rientrante. Ma molte
sue caratteristiche potrebbero farlo annoverare fra gli antenati diretti
dell'uomo. Nel neanderthaliano sono evidenti minori differenze rispetto all'uomo
che al pitecantropo. L'uomo di Neanderthal conosceva tecniche progredite per la
scheggiatura della pietra e, nonostante il suo aspetto che oggi può
apparire «bestiale», possedeva una psicologia già decisamente
umana perché seppelliva i suoi morti, dimostrando così di avere
concezioni animistiche o religiose.
Ai
neanderthaliani subentrarono, circa 80 mila fa, ominidi con caratteri misti fra
l'uomo di Neanderthal e l'Homo sapiens, cioè l'attuale. Poi, fra i 50
mila e i 30 mila anni fa, neanderthaliani e neanderthaloidi lasciarono il posto
ai neoantropi, ossia a uomini che si possono considerare del tutto simili a noi,
appartenenti all'Homo sapiens. Questi nostri antenati idearono tecniche
raffinate per la scheggiatura della pietra, la lavorazione delle ossa, la
preparazione della ceramica e svilupparono (probabilmente a scopo
magico-religioso) forme artistiche culminanti negli affreschi della grotta di
Altamira, in Spagna.
L'ANTENATO PIU' ANTICO
L'uomo di Neanderthal fu
considerato per lungo tempo come l'«anello mancante» della catena
evolutiva fra l'Homo sapiens e le sue forme inferiori: dal pitecantropo sarebbe
derivato il neanderthaliano, e da questo l'uomo attuale. Oggi gli studiosi si
sono resi conto che questa interpretazione è troppo semplicistica. Le
scoperte degli ultimi decenni sembrano indicare che l'Homo sapiens deriva da un
ramo diverso, anteriore ai primi neanderthaliani, e che l'uomo di Neanderthal
rappresenta un ramo estinto di ominidi. Il neanderthaliano fu certamente
contemporaneo dell'Homo sapiens, come dimostra fra l'altro il fatto che la sua
arte di tagliare la pietra migliorò di colpo quando esso entrò in
contatto con i neoantropi dotati di tecniche migliori. Poi l'uomo di Neanderthal
scomparve bruscamente, lasciando l'Homo sapiens unico protagonista della
preistoria e infine della storia.
Molti studiosi
suppongono che, specialmente in Europa, l'Homo sapiens invase i territori
dell'uomo di Neanderthal, e che dopo alcuni millenni di coesistenza niente
affatto pacifica, distrusse il suo simile più primitivo. Ma fino a oggi
non è stata trovata alcuna prova di questo genocidio preistorico.
Più probabile sembra invece l'ipotesi (avvalorata dalla scoperta di
neanderthaloidi) che per un certo tempo vi furono incroci fra Homo sapiens (o
pre-sapiens) e uomo di Neanderthal. La loro separazione «razziale» non
sarebbe stata dunque tanto assoluta come potrebbe sembrare. Se così
avvenne, bisogna ammettere che anche l'uomo di Neanderthal partecipò
all'ascesa dell'Homo sapiens, alla sua evoluzione
biologica.
Ma qual è allora il nostro
più lontano e più diretto parente? A questo interrogativo
fondamentale gli studiosi non sanno ancora dare una risposta
precisa.
L'origine dell'umanità resta
misteriosa. L'ipotesi più suggestiva è quella di Leakey:
l'antenato più antico e più diretto dell'uomo è l'Homo
abilis che visse per oltre un milione di anni; infatti i suoi resti sono
databili fra 1.800.000 e 400 mila anni fa. Ciò significa che egli
esistette prima, durante e dopo lo zinjantropo di cui, secondo Leakey, non
disdegnava di fare pasto.
La scoperta dell'Homo
abilis rinforza l'opposizione contro l'opinione che «l'uomo discende dalla
scimmia». Già nel 1926, il biologo olandese Bolk faceva notare che
il cranio umano non è morfologicamente più evoluto di quello della
scimmia, ma rappresenta uno stadio più primitivo: l'uomo assomiglia
più a una scimmia neonata che ad una adulta. Da questa osservazione, Bolk
dedusse la teoria della «fetalizzazione», secondo la quale l'uomo non
discenderebbe da una scimmia, ma da uno stadio fetale scimmiesco. Egli sarebbe
in certo qual modo una scimmia nata anzi termine, stabilizzato in questa forma
fetale e diventato capace di riprodursi.
Nel 1939,
lo zoologo belga Bernard Heuvelmans affermava la necessità di respingere
ogni concetto di una filiazione diretta dalle scimmie e dagli
«uomini-scimmia» fossili all'Homo sapiens. Egli si basava sia su
osservazioni di anatomia comparata, sia sullo studio dello sviluppo individuale
delle scimmie e degli uomini: secondo Heuvelmans, le mascelle sfuggenti e le
arcate sopraccigliari salienti che caratterizzano non solo le grandi scimmie
viventi, ma anche gli australopiteci e i neanderthaliani, sono tratti di
specializzazione, cioè segni
evolutivi.
Infatti lo sviluppo della giovane
scimmia conferma il senso di tale evoluzione. Già alla fine del
Settecento, il naturalista francese Cuvier notava che «in giovane
età la scimmia ha la fronte larga, il muso poco prominente, il cranio
rotondo; caratteristiche che poi perde crescendo». Si può quindi
dire che, alla nascita, la scimmia presenta particolarità umanoidi
destinate a scomparire. Ora, se l'uomo discendesse dalla scimmia,
rappresenterebbe non una evoluzione, ma una involuzione morfologica rispetto
allo sviluppo di questo suo presunto
antenato.
All'inizio del capitolo si è detto
che l'uomo e la scimmia sono il risultato di due rami evolutivi divergenti da un
ceppo comune, cioè da un animale ancora ignoto vissuto circa 35 milioni
di anni fa. Ma il ramo degli ominidi è tutt'altro che rettilineo
perché si divise in altri rami collaterali che si estinsero ad uno ad
uno, mentre uno solo continuò la sua evoluzione fino all'attuale Homo
sapiens. I pitecantropi e i neanderthaliani sono morfologicamente
«più evoluti» (nel senso indicato da Heuvelmans), per esempio
nella mascella, rispetto all'Homo sapiens; ma appartengono a rami estinti
nell'albero genealogico degli ominidi. E così anche i loro predecessori,
gli australopiteci.
Resta l'Homo abilis, questo
essere dalla testa rotonda, dalle mascelle relativamente piccole, dalla stazione
eretta, il più antico e il più durevole degli ominidi, quello che,
morfologicamente, più ci assomiglia. Non si può ancora affermare
che sia il nostro antenato diretto; inoltre si ignora totalmente quali forme
siano derivate dall'Homo abilis. Ma il fatto che egli fu contemporaneo di un
altro ominide, lo zinjantropo, dimostra che è errato fare discendere
l'Homo sapiens direttamente dagli australopiteci, passando per i pitecantropi e
i neanderthaliani. Sembra più plausibile ritenere che varie specie di
ominidi abbiano coesistito nel corso dell'ultimo milione e mezzo di anni,
eliminandosi forse a vicenda. E in conclusione, avrebbe trionfato la specie meno
specializzata morfologicamente, ma più adattabile: quella dell'Homo
sapiens.
Gli scavi alla ricerca dei progenitori
dell'umanità, degli anelli ancora mancanti nella catena della nostra
evoluzione biologica, continuano in tutto il mondo, soprattutto in Africa dove
le scoperte degli ultimi anni - e in particolare quella dell'Homo abilis -
sembrano confermare l'ipotesi secondo cui quel continente fu la culla della
specie umana. Il suo primo assertore fu, nel secolo scorso, Charles Darwin, il
biologo e naturalista inglese fondatore della teoria evoluzionistica che porta
il suo nome. Nuove sorprese non sono da escludere; comunque le acquisizioni
più recenti hanno già costretto gli studiosi a compiere ampie
revisioni della preistoria umana e sembra che almeno due nuovi concetti
fondamentali siano destinati a non trovare smentita: che l'uomo non discende
dalla scimmia e che i suoi primi antenati risalgono a circa 2 milioni di anni
fa.
L'Homo sapiens è dunque quello che forma
l'umanità attuale. Ma tale classificazione zoologica non spiega il fatto
che l'umanità è formata da varie razze e, in particolare, è
ancora divisa dal fenomeno del razzismo. Sull'origine delle razze, le opinioni
degli antropologi sono molto incerte e discordi. Certo è, invece, che la
separazione razziale, anche quando non culmina nel genocidio perpetrato dal
nazismo contro gli ebrei (che non formano una razza) o non assume l'evidenza
esasperata dell'apartheid sudafricana, è in atto nel mondo intero.
L'enorme balzo in avanti compiuto dalla scienza e dalla tecnica negli ultimi
decenni non ha scosso il pregiudizio secondo il quale esisterebbero razze
«superiori» e razze «inferiori» destinate a restare divise
da confini reali e invalicabili.
LE DIFFERENZE RAZZIALI
Le razze umane attuali
presentano senza dubbio tali differenze di forma, struttura, proporzioni,
funzionamento fisiologico e psichico, da giustificare in primo momento
(cioè a un esame superficiale e sommario) l'impressione che
l'umanità sia formata da gruppi etnologici a se stanti e, sotto molti
aspetti, estranei gli uni agli altri. Si pensi, per esempio, alle differenze che
passano tra alcune razze selvagge odierne (come i pigmei e gli ottentotti) e le
razze civili. Ma la diversità che distingue i gruppi umani è
davvero irriducibile?
Occorre anzitutto tenere
presente che gli stessi studiosi di antropologia e di etnologia non sono
d'accordo per ciò che riguarda la classificazione delle razze umane:
alcuni parlano di 3 sole razze (i bianchi, i neri e i gialli), altri di 5
(caucasoidi, negroidi, mongoloidi, australoidi e indoamericani); altri ancora
elencano ben 30 razze umane. Certo è che il termine razza non va affatto
inteso nel senso di «razza pura» (che non esiste). Esso serve soltanto
a designare un vasto raggruppamento etnico che, come tutte le cose viventi, non
è statico, ma in continua trasformazione. Del resto, studi comparativi
molto estesi e minuziosi hanno dimostrato che le differenze razziali, anche le
più considerevoli, sono soltanto
quantitative.
Prendiamo, per esempio, il colore
della pelle: tra gli uomini di razza bianca, gialla e negra si trovano tutte le
gradazioni intermedie, non solo tra le differenti razze, ma spesso nell'ambito
di un medesimo sottogruppo razziale. Le stesse osservazioni si possono fare per
il colore dei capelli e degli occhi, per la forma della testa, del naso e di
altre particolarità morfologiche che pure caratterizzano i vari tipi
razziali. Anche i muscoli presentano sensibili differenze di razza, ma pur esse
quantitative o di frequenza. Lo stesso si può dire riguardo alla
conformazione dei denti e di alcuni organi
interni.
La capacità cranica oscilla, negli
uomini di tutte le razze, da minimi individuali di 790 centimetri cubici, a
massimi, pure individuali, di oltre 2.000 centimetri cubici, passando
però per tutti i valori intermedi. Differenze razziali di una certa
entità si sarebbero riscontrate nella forma e nella struttura del
cervello: ma anche queste riguardano la frequenza di certe particolarità
(come le circonvoluzioni e i solchi), non già la presenza di
conformazioni del tutto nuove o esclusive.
Pure per
ciò che concerne i fenomeni fisiologici, si tratta di differenze
quantitative o di frequenza, spesso dipendenti da fattori ambientali. Per
esempio, il diverso ritmo della crescita, il differente periodo della
pubertà, del climaterio e della senescenza, il diverso funzionamento
ormonico e metabolico non sono tali da giustificare una netta separazione dei
gruppi umani, perché queste differenze si possono incontrare in diversi
individui di una medesima razza, e le differenze tra le varie razze sono
soltanto di tipo medio. Una delle più importanti indagini in questione
riguarda i gruppi sanguigni: ebbene, si è costatato che la differenza
nelle diverse razze è solo quantitativa o di percentuale, perché i
gruppi sanguigni sono rappresentati in tutti i tipi razziali. In pratica, un
bianco può donare il proprio sangue a un negro e viceversa, perché
non esiste incompatibilità di sangue in senso
razziale.
Ma l'argomento più decisivo della
comune parentela fra tutti gli uomini, è quello
dell'interfecondabilità delle razze. Infatti le unioni finora osservate
fra razze umane anche diversissime hanno dato ibridi fecondi. Ciò
significa che tutte le razze umane appartengono alla medesima specie. Falso
è anche il pregiudizio che gli ibridi siano un prodotto peggiorativo:
spesso anzi essi risultano superiori ai genitori. La biologia ha dimostrato che
i geni (le unità ereditarie) di una razza sono, al 99%, identici a quelli
di qualsiasi altra razza. Ciò significa che fra tutte le razze umane,
anche tra quelle che per certi aspetti esteriori sembrano le più diverse
e lontane, le differenze reali sono poche e di importanza
secondaria.
Le stesse diversità psichiche
tra razza e razza sono sempre quantitative, mai sostanziali o qualitative. Non
vi è dubbio che tutte le razze umane attuali hanno una psiche
essenzialmente eguale. Un etnologo di fama mondiale, il professor
Lévy-Bruhl, riconobbe che «la mentalità dei primitivi
è della stessa natura di quella degli altri popoli; lo spirito dei
primitivi non è diversamente conformato dal nostro». Ciò
è stato confermato anche dalla moderna psicologia del profondo,
soprattutto dagli studi e dalle ricerche compiute dal più illustre
allievo di Freud, lo svizzero Carl Gustav
Jung.
Tutti gli uomini si presentano dunque, per i
loro caratteri morfologici, fisiologici e psichici, come una unica grande
famiglia, che ha avuto una storia assai lunga, ha subito notevoli
trasformazioni, e si è divisa e suddivisa in tanti gruppi minori e
caratteristici.
Ed è una famiglia ancora
incapace di accomunarsi proprio a causa di differenze somatiche riassumibili in
una sola: il colore della pelle. Si tratta di un carattere della pigmentazione
che si associa con molti altri elementi
antropologici.
Il colore di una razza non proviene
dall'azione diretta dell'ambiente: così, ad esempio, non è affatto
vero che i negri hanno la pelle nera perché esposti al sole molto
più dei bianchi. Il colore della pelle è invece il prodotto di
fenomeni genetici (mutazioni) sorti spontaneamente nell'umanità
primitiva, selezionati dall'ambiente, fissati da sistemi di incroci,
consanguineità, ecc., di cui quasi niente si sa. Il colore della pelle fa
dunque parte delle estrinsecazioni dei patrimonio ereditario, perciò si
trasmette senza variare nelle unioni fra individui di una stessa razza
(endogamia) e si diluisce nelle unioni fra individui di razza diversa (esogamia)
cioè nei loro prodotti, i mulatti.
Ebbene,
l'umanità attuale tende a insistere sulla differenziazione razziale oggi
esistente, e la dimostrazione più valida è che la scelta
matrimoniale si basa, prima ancora che sul ceto sociale, sulla discriminazione
razziale. La domanda tipica che il razzista rivolge all'antirazzista è:
«Permetteresti che tua figlia sposasse un negro?». Ma non esiste
soltanto un razzismo bianco. C'è anche un razzismo giallo e un razzismo
nero. Per esempio, fra i giapponesi, la differenza fra gruppi con pelle chiara e
gruppi con pelle scura è coscientemente sentita e mantenuta; in India,
dove le caste si sono differenziate largamente anche in base al colore, gli
annunci matrimoniali pubblicati dai giornali insistono sul colore chiaro della
pelle della donna. Questi due esempi dimostrano l'esistenza di una forma di
razzismo bianco fra popolazioni asiatiche.
IL FUTURO DELL'UMANITÀ
Il razzismo nero è di
nascita recente. Da una parte viene teorizzato in alcuni ambienti di negri degli
Stati Uniti come reazione alla segregazione loro imposta dai bianchi; dall'altra
si sta affermando in Africa come reazione al colonialismo e, in nome dell'idea
panafricana, tende a comprendere in un solo gruppo popolazioni molto diverse non
solo per il colore più o meno scuro della pelle, ma anche per molti altri
caratteri ereditari. Pure in Africa non mancano esempi di razzismo
interrazziale: i vatussi che considerano inferiori le altre popolazioni negre,
tribù congolesi che ritengono «non completamente uomini» i
pigmei, e così via.
Esistono tutte le
premesse biologiche perché, come preconizzano genetisti molto
qualificati, l'umanità del futuro possa fondersi e omogeneizzarsi fino a
livellare ogni differenza di razza, creando così su tutta la Terra un
solo tipo umano unico che riassumerebbe tutti i caratteri della nostra specie.
Ma questa visione appare oggi utopistica perché alla sua realizzazione si
oppongono, non solo la tenace diffusione dei pregiudizi razziali più o
meno dichiarati, più o meno consapevoli, ma anche un vero e proprio
«blocco» psicologico, di natura arcaica, inconscia, che pure all'uomo
evoluto e spregiudicato riesce difficile rimuovere, razionalizzare. Sotto questo
aspetto, l'uomo moderno è ancora immaturo, prigioniero di una
mentalità primitiva.
Non bisogna però
combattere il pregiudizio razziale in nome di una male intesa eguaglianza.
Quando si parla di ciò, si allude solo a una eguaglianza di sentimenti e
di bisogni elementari, di diritti e di doveri, contro ogni privilegio sociale o
di stirpe. In questo senso gli uomini sono tutti fratelli. Ma la dissimiglianza
delle razze (quantitativa, come si è detto) è un fatto innegabile.
Ciò non significa che soltanto alcune di esse siano in grado di produrre
in esclusiva individui più evoluti. Non è prerogativa di nessuna
razza in particolare avere il monopolio degli uomini di
genio.
Al di là di ogni distinzione di
colore, i popoli, come gli individui, non sono mai eguali; e fra essi vi sono
sempre differenze di sviluppo. È giusto rimuovere l'ineguaglianza delle
condizioni in cui gli uomini sono chiamati a crescere e a progredire; ma questa
opera di fratellanza non renderà mai gli uomini eguali. Si tratta di una
impossibilità che, prima di ogni altra cosa, è biologica, propria
della natura umana e non umana. L'idea di un livellamento, sia pure di tipo
superiore, è incompatibile con le leggi stesse della
vita.
Al termine di ogni studio sulle origini
umane, una serie di domande si impone. L'uomo può evolversi nell'avvenire
come si evolse nel passato? Oppure vi sono valide ragioni per ritenere che la
sua evoluzione è terminata? E se esistono forze evolutive che agiscono
ancor oggi sull'uomo, quali sono e in quale misura è possibile prevedere
i loro effetti?
Nel mondo vegetale e animale,
cambiamenti evolutivi si sono verificati, si può dire, sotto i nostri
occhi. I più significativi e i più recenti si collegano con il
problema della diminuita efficacia di alcuni antibiotici, cioè con il
fatto che molti batteri sono diventati resistenti alla loro azione. Si tratta di
una resistenza di natura genetica, ereditaria. All'inizio, i batteri
geneticamente resistenti erano una esigua minoranza. Ma dopo che i ceppi
batterici non resistenti sono stati eliminati dagli antibiotici, questa
minoranza, sopravvivendo e moltiplicandosi, ha finito col prevalere.
Modificazioni di tal genere - riscontrabili nel volgere di pochi anni
perché le generazioni batteriche si succedono in un tempo enormemente
più rapido che quelle degli organismi vegetali e animali più
complessi - appaiono come i rudimenti di una evoluzione più vasta, che
agisce tuttora sull'intera natura vivente, ma i cui effetti sono riscontrabili
lungo migliaia, lungo milioni di anni.
Mutamenti
evolutivi della stessa natura sono certamente avvenuti più di una volta
nella storia umana. Lo sviluppo, poi la regressione di certe malattie possono
essere considerati sotto questo punto di vista. Ma si tratta di mutamenti
relativamente poco importanti. La questione maggiore è di sapere se
l'uomo può ancora evolversi naturalmente, e se la scienza sarà in
grado di farlo evolvere più in fretta, anche fuori dai
«disegni» della natura. La risposta può essere
affermativa.
Le condizioni necessarie per una
ulteriore evoluzione, sia naturale sia artificiale, esistono. La
diversità genetica, la variabilità genetica, è grande nella
specie umana, come dimostra il fatto che ogni essere umano differisce
geneticamente da ogni suo simile è un individuo unico e irrepetibile.
Inoltre, come dicono gli zoologi, «l'uomo ha una struttura non
specializzata» (e in ciò sembra risiedere, come si è
accennato, la sua sopravvivenza sugli ominidi), vale a dire una struttura che
non lo vincola a un modo particolare di vita. L'uomo è dunque in grado di
evolversi. Ma in quale senso tale evoluzione potrà
compiersi?
Non è possibile prevederne il
tempo e il modo, se essa dovesse continuare a svolgersi spontaneamente come nel
passato. Ma oggi la scienza ha i mezzi per affrettarla e dirigerla al di fuori
dagli schemi della natura. Uno di questi mezzi, largamente applicato
nell'allevamento di piante e animali, potrebbe essere la selezione artificiale,
ossia la scelta e l'incrocio degli individui meglio dotati, in modo da ottenere
una generazione geneticamente «superiore». Ma si tratta di un sistema
coattivo, o accettabile soltanto da ideologie razziste, di cui il nazismo fu
l'esempio storicamente più vicino. Inoltre vi è da osservare che,
in campo umano, la selezione artificiale non agirebbe, come si può
supporre, in senso evolutivo.
Per chiarire questo
concetto, basta un semplice esempio. Come si è avuto occasione di dire da
un padre a da una madre con occhi scuri non nascono necessariamente bambini con
occhi scuri. Poiché il gene degli occhi bruni è dominante rispetto
al gene degli occhi azzurri, ciascuno dei due genitori può avere, nel suo
patrimonio ereditario, sia il gene degli occhi bruni, sia quello degli occhi
azzurri. Ora, un individuo che ha ricevuto lo stesso gene (per esempio quello
degli occhi bruni) tanto dal padre quanto dalla madre, è detto omozigote
rispetto a quei due geni eguali. Se invece ha ricevuto geni diversi - uno bruno
e uno azzurro - si chiama eterozigote, rispetto a quei due geni
differenti.
Le tecniche di allevamento e di
selezione delle razze pure di piante e animali - le quali sono omozigote non
solo per ciò che riguarda il colore, ma anche per moltissime altre
caratteristiche ereditarie - hanno diffuso l'opinione che gli individui
«puri», cioè omozigoti, siano meglio dotati. Questo può
essere vero quando si tratta di «esasperare» a scopi pratici,
cioè di sfruttamento, certe caratteristiche particolari: per esempio, la
resistenza di una pianta al freddo, la capacità di un albero di produrre
frutti più grossi, di una pecora di dare lana più lunga, di un
cavallo di correre più velocemente.
Ma dal
punto di vista dell'evoluzione biologica, la razza «pura» costituisce
un arresto, un livellamento, una forma di stabilità e di
uniformità. L'esperienza mostra invece che un individuo nel quale geni
diversi bilanciano la loro azione - ossia un eterozigote - appare meglio dotato
di un omozigote. Un esempio molto comune: un cane di razza pura è
generalmente più delicato e meno intelligente di un cane bastardo; fra i
due, il più resistente, quello in grado di adeguarsi meglio ai mutamenti
ambientali e il meno «specializzato», cioè il
bastardo.
Sono gli eterozigoti, cioè i
meglio dotati, dal punto di vista biologico, che impediscono alla selezione
naturale di mantenere stabile e uniforme una popolazione; e ciò
perché gli eterozigoti hanno una discendenza che non è stabile
né uniforme. Inoltre bisogna abbandonare l'idea che gli organismi meglio
adattati possano diventare il tipo predominante: poiché, geneticamente
parlando, sono di costituzione ibrida, producono continuamente individui diversi
da loro. Ecco perché, in campo umano, la selezione artificiale si
rivelerebbe illusoria: i «pianificatori» sarebbero continuamente
frustrati nei loro tentativi di ottenere un tipo umano
ideale.
La superiorità degli eterozigoti -
quando esiste, perché non si tratta di una legge assoluta - è
ancora inspiegabile per la genetica. Talvolta è possibile discernere
ragioni speciali che chiariscono, in casi molto particolari, perché un
eterozigote è avvantaggiato. Ma per spiegare come mai questo vantaggio
è così frequente, si può tenere presente una ragione
generale: una specie vivente, i cui componenti devono affrontare un ambiente
mutevole nel tempo e nello spazio, tende ad acquistare un sistema genetico
dotato di una certa ineguaglianza, quindi una diversità. È questa la
soluzione adottata dalla maggior parte degli organismi, e da quello umano in
particolare. Nessuna specie vivente perfeziona il suo adattamento al punto da
sacrificare totalmente la sua adattabilità. E se un alto grado di
diversità innata si mantiene, ciò avviene perché questo
è il mezzo naturalmente più economico e più agevole di
assicurare l'adattabilità.
Nella storia
della vita, misurabile a miliardi di anni, il problema dell'adattabilità
ha trovato di recente una soluzione del tutto nuova; una soluzione che tende a
compensare quelle «ineguaglianze» della nascita e quelle imperfezioni
che prima non restava altro che subire. Non si tratta più di migliorare
direttamente la specie, bensì il proprio ambiente. È la soluzione,
è il compito dell'uomo e della sua civilizzazione, che per mutare a
proprio vantaggio le condizioni ambientali, soprattutto negli ultimi secoli
hanno trasformato profondamente il volto della
Terra.
Gli esempi sono innumerevoli, perciò
basta riferirsi a uno dei più comuni. Un tempo, quando sopraggiungevano i
rigori dell'inverno e la necessità di superare i periodi di carestia, gli
individui piuttosto grassi si trovavano in vantaggio. Ma oggi è noto che
un eccesso anche non esagerato di grasso accorcia notevolmente la durata
dell'esistenza. Ebbene, il miglioramento delle condizioni di vita permette ormai
l'abbandono di quell'accumulo di grasso, una volta vantaggioso, consentendo
così un aumento della longevità media.
L'EREDITÀ NON GENETICA
Questo esempio dimostra che,
anche nell'uomo, la natura si trovava costretta a compromessi spesso
contraddittori, obbligata come era a conservare un carattere genetico o una
condizione acquisita fondamentalmente sfavorevoli, ma legati a determinate
resistenze alle condizioni ambientali. Ora tutti i vantaggi della
civiltà, non obbligando più l'uomo a combattere con le risorse
naturali del proprio organismo il freddo, la fame, l'estrema fatica, rendono
inutili numerose predisposizioni genetiche. E questa loro mancanza di impiego
può provocare la liberazione di altre predisposizioni prima
«compresse». Ad esempio, sul piano intellettuale: la selezione
naturale degli individui più intelligenti ha oggi una possibilità
di azione di gran lunga maggiore.
Ecco uno degli
indizi che permette di cogliere uno dei maggiori aspetti dell'evoluzione umana:
un accrescimento quantitativo, se non qualitativo, dell'intelligenza.
Migliorando il suo ambiente, l'uomo risolve dunque, in un modo del tutto nuovo,
il problema dell'adattabilità e contemporaneamente si evolve. Si tratta
della soluzione più umana nel senso migliore della
parola.
Ma l'uomo dispone anche di un sistema
ereditario interamente originale, che però non ha niente di genetico. È
un sistema che gli permette di agire sulla posterità con mezzi che non
riguardano i cromosomi, i geni, l'ADN. È un nuovo genere di evoluzione
biologica che differisce sensibilmente da quella che si è svolta
attraverso le epoche geologiche, nel corso di alcuni miliardi di
anni.
Per rendersi conto di questo sistema
ereditario, che ha aumentato di colpo le possibilità e le
potenzialità evolutive umane, si può fare riferimento al
lamarkismo, ossia alla teoria dell'eredità dei caratteri acquisiti
elaborata agli inizi del secolo scorso dal naturalista francese G.B. Lamarck,
uno dei maggiori pionieri dell'evoluzionismo. Il lamarkismo può essere
considerato, nella maggior parte delle sue forme, come una teoria
«istruttiva», nel senso che essa sostiene che, in un modo o
nell'altro, l'ambiente può fornire istruzioni agli esseri viventi, e che
queste istruzioni, debitamente assimilate, possono essere trasmesse alle
generazioni seguenti.
Ma tutte le volte che si
è tentato, da parte dei genetisti, di analizzare un fenomeno che poteva
apparire lamarchiano, si è riscontrato che non lo era affatto. Fino a
oggi, dunque, non si è avuta alcuna conferma indubitabile che l'ambiente
fornisca agli esseri viventi informazioni che si inseriscono nel loro patrimonio
ereditario e quindi diventino geneticamente trasmissibili. Lo stesso si
può dire riguardo allo sviluppo degli organismi: le istruzioni genetiche
esistono già nell'embrione; solo la loro successiva realizzazione viene a
trovarsi sotto l'influsso
dell'ambiente.
Straordinaria apparirebbe
perciò, sotto tale aspetto, l'esistenza di un organismo che potesse
effettivamente ricevere istruzioni dall'ambiente. Ebbene, questo organismo
è il nostro, perché possiede un organo in grado di ricevere
istruzioni dall'esterno: il cervello, dotato di attività e
proprietà che non si riscontrano nel cervello di nessun altro animale. Le
zone associative della corteccia cerebrale umana possono reagire a stimoli
istruttivi, ossia l'uomo è dotato di una elevatissima capacità di
apprendimento.
Se la faccenda fosse tutta qui,
potremmo certamente vivere con più successo di ogni altro animale.
Però, alla nostra morte, i nostri discendenti dovrebbero ricominciare
tutto daccapo. Ma il nostro apprendimento non è limitato come quello di
altri esseri viventi, sia pure altamente organizzati. Noi abbiamo la coscienza,
il pensiero, la parola, la scrittura, elaboriamo immagini concrete e astratte,
la nostra memoria è formidabile, possediamo tecniche di insegnamento,
nella storia umana le tradizioni nascono e si perpetuano oralmente oppure
attraverso la stampa, il telefono, la radio, la televisione, mediante le arti
musicali e figurative. Oggi vengono elaborate teorie della forma e
dell'informazione per meglio insegnare, comprendere e apprendere, ricorrendo
anche all'aiuto dei calcolatori elettronici.
È
evidente che le informazioni trasmesse da un essere umano all'altro, o da una
generazione a quella successiva, cambiano con il tempo: il bisavolo non
insegnò al nonno quello che oggi un padre insegna al figlio. Ora, un
sistema ereditario dotato di questa proprietà può essere
considerato evolutivo, e di tipo lamarkiano, per così dire. L'uomo
è dunque in grado di agire sulla sua posterità in un modo non
genetico. Infatti è artificioso distinguere una evoluzione strettamente
biologica da una evoluzione sociale, culturale o tecnologica: l'una e le altre
sono evoluzioni di cui l'uomo, un essere biologico, un prodotto della natura,
è il protagonista. Ma mentre l'una è genetica, le altre non lo
sono.
La nostra nuova forma di evoluzione è
dunque cerebrale e «lamarkiana». Infatti, se l'ambiente non può
imprimere in noi informazioni genetiche, può fornirci però
informazioni non genetiche che possiamo utilizzare, e lo facciamo. In questo
caso, i caratteri acquisiti sono trasmissibili, sia pure al di fuori dai
cromosomi. Tale evoluzione prettamente umana è migliore di quella
genetica che determina il destino di ogni essere vivente. L'evoluzione
cerebrale, nata sotto il segno della ragione, ci permette di sfuggire, sia pure
parzialmente, alla indeterminatezza, alla casualità, ai compromessi e
agli errori dell'evoluzione genetica. L'evoluzione promossa dal cervello umano
è, in effetti, una rivoluzione che procede a ritmo accelerato e nella
quale l'uomo trova finalmente la possibilità di rinnovarsi, non
più l'attesa di essere rinnovato.
Ciò
comporta enormi responsabilità individuali e collettive non solo nei
confronti della specie umana, ma della stessa natura da cui l'uomo è
sorto e della quale continuerà a far parte. Possiamo dunque migliorare
ciò che la natura ha fatto, in noi e intorno a noi. Le nostre
possibilità di azione aumentano di giorno in giorno, grazie ai progressi
della scienza e della tecnica. Ma ciò che sappiamo è ancora poco,
perciò dobbiamo continuare ad esplorare questa natura, allargare le
nostre conoscenze e la nostra comprensione - il che significa ampliare anche la
nostra coscienza - per diventare sempre più padroni e responsabili del
destino della nostra specie.
Di queste prospettive
sul futuro dell'uomo si è reso interprete uno dei maggiori biologi del
nostro tempo, l'inglese P.B. Medawar. Ora ci si può chiedere: «La
scienza sarà in grado di modificare la fisiologia e la psicologia
dell'uomo?». Certamente, questa trasformazione è già
iniziata, e gli esempi non mancano, dalla chirurgia che ha cominciato a
sostituire organi ammalati con organi naturali o artificiali, alla farmacologia
che già dispone di sostanze in grado di influire su varie funzioni
cerebrali. La ricerca biologica si è alleata con la meccanica e con
l'elettronica, allo scopo di creare apparecchiature in grado di aiutare o
sostituire varie funzioni organiche.
La biologia
cerca di comprendere i processi di adattamento riscontrabili in altre forme di
vita per applicarli all'uomo: metterlo in condizione di rigenerare un organo,
invece di sostituirlo con uno di ricambio; ridurre il suo consumo di ossigeno a
quello di uno «sherpa» dell'Himalaya; consentirgli di sopportare il
calore come un fachiro che cammina sulle braci; restare a lungo in stato di vita
sospesa per mezzo dell'ibernazione artificiale; utilizzare a fondo ll suo
cervello mediante stimolazioni chimiche ed elettriche. Ma l'obiettivo più
ambizioso della biologia è quello di modificare il patrimonio ereditario
umano agendo direttamente sull'ADN, sulla «molecola della
vita».
Questa facoltà di modificare gli
esseri umani susciterà pericoli immensi, perciò richiederà
grande prudenza e senso di responsabilità. Fin da oggi bisogna tenere in
considerazione quella «morale biologica» che Jean Rostand (il famoso
biologo francese) così riassume: essere il più uomo possibile,
sviluppare le qualità propriamente umane e, per questo, essere il meno
bestiale, il meno infantile, il meno nevrotico possibile, per meritare
completamente il nome di homo sapiens. E non è tutto: se la biologia,
osserva Rostand, pone in luce ciò che nell'uomo è il lato
più umano, essa potrà, allo stesso modo, guidarci nella
preparazione razionale del sovrumano.