MEDICINA - GUIDA MEDICA - IL POSTO DELL'UOMO NELLA NATURA

LA FAMIGLIA DEGLI OMINIDI

L'organismo umano è un prodotto dell'evoluzione biologica; e il prodotto più alto, dal punto di vista psichico, della vita terrestre. Fra gli animali, l'uomo si distingue per l'elevatezza delle sue facoltà mentali, per il suo linguaggio che esprime una complessità di pensiero che giunge all'astrazione, per l'uso delle mani con le quali si costruisce un mondo che è una sovrastruttura di quello naturale. L'uomo è cosciente, l'uomo pensa e crea, è il protagonista di una evoluzione sociale, culturale e tecnologica che è facile magnificare come proveniente da un'ispirazione metafisica, mentre alla scienza appare come una espressione dell'evoluzione biologica.
La vecchia polemica fra spiritualismo e materialismo non ha più ragione di esistere perché le scoperte scientifiche sono una continua dimostrazione del nostro abisso di ignoranza di fronte all'universo e ci insegnano l'umiltà: la materia, la natura, la vita conservano intatta la loro essenza misteriosa. E per renderci conto di ciò, oggi non abbiamo bisogno di essere sollecitati da nessuna speculazione filosofica, da nessuna cosmologia aprioristica.
È con questo animo, umilmente, che da quasi un secolo squadre di ricercatori compiono scavi in tutti i continenti, fra le ossa fossilizzate di animali estinti, per gettare qualche sprazzo di luce sul mistero delle nostre origini. La psicoantropologia, cioè la scienza che studia gli uomini preistorici, tenta di ricostruire sulla base dei suoi reperti (quasi sempre crani, e il più delle volte incompleti) la struttura scheletrica dei nostri progenitori. Ma poco o nulla ci sa dire sul loro grado di evoluzione mentale: questa si può dedurre soltanto dal ritrovamento di manufatti (oggetti di pietra, di osso, di argilla, ecc.), di tracce di abitazioni (caverne, palafitte) o di attività particolari (focolari, tombe, incisioni, pitture) che dimostrano l'esistenza di attività intelligenti di tipo già umano.
Le scoperte recenti hanno smentito due opinioni molto diffuse: l'uomo non discende dalla scimmia e i suoi antenati vissero non decine o centinaia di migliaia, ma milioni di anni fa. Le grandi scimmie oggi viventi, cioè l'orango, il gorilla e lo scimpanzè, appartengono alla famiglia dei pongidi; invece l'uomo attuale e quello preistorico fanno parte di un'altra famiglia, quella degli ominidi. Pongidi e ominidi avrebbero origine da un ceppo comune, ma risalente a oltre 35 milioni di anni fa. Si tratta di una supposizione, perché i resti di quel remoto antenato dei pongidi e degli ominidi non sono stati ancora individuati.
Secondo le interpretazioni scientifiche più attuali, fra i 30 e i 35 milioni di anni fa, dal ceppo comune si staccarono due rami principali, l'uno rappresentato dal propliopiteco che diede origine agli ominidi, l'altro dal driopiteco dal quale derivarono le grandi scimmie. La scoperta del propliopiteco, avvenuta a Fayum, in Egitto, è del 1962; quella del driopiteco, a Saint Gaudens, in Francia, nel 1856, seguita da molte altre consimili in Cina, India, Russia, Spagna e Kenia negli ultimi 110 anni.
Dopo il propliopiteco, nelle ricerche dei presunti progenitori dell'umanità c'è un vuoto di oltre 20 milioni di anni. Dopo di che si incontrano, circa 14 milioni di anni fa, il ramapiteco scoperto nel 1932 a Siwalik, in India, e nel 1962 nel Kenia; e circa 12 milioni di anni fa l'oreopiteco, trovato nel 1958 in Toscana. Ma si tratta di esseri pre-umani.
Per incontrare qualche primo indizio di attività intelligente bisogna fare un salto di altri 10 milioni di anni, fino all'Homo abilis, i cui resti, che risalivano a circa 1.800.000 anni fa, furono rinvenuti nel 1960, a Olduvai nel Tanganika, da Louis S.B. Leakey. Quel rinvenimento fu la seconda bomba che Leakey gettò fra gli studiosi della preistoria umana. La prima era costituita dalla scoperta dello zinjantropo, avvenuta nel 1959, anch'essa ad Olduvai, vissuto circa 1.750.000 anni or sono. Lo zinjantropo appartiene al gruppo degli australopiteci, i cui resti furono scoperti più di 30 anni fa a Taung, nell'attuale Botswana, e in seguito in varie regioni africane, dal Transvaal al Kenia. Sembrava che l'australopiteco non fosse più vecchio di 700 mila anni; invece la scoperta dello zinjantropo lo riportava indietro di ben un milione di anni.
Secondo molti antropologi, l'Homo abilis sarebbe una varietà di australopiteco. Ma Leakey lo ritiene dotato di caratteristiche più umane, il progenitore più antico e forse più diretto dell'uomo vero e proprio. La principale argomentazione di Leakey si basa sulla forma del cranio: infatti, mentre il cranio dello zinjantropo (e degli altri australopiteci) è sormontato da una cresta spessa simile a quella del gorilla e ha una mascella potente, il cranio dell'Homo abilis è rotondo, molto simile a quello dell'uomo attuale, benché più piccolo. Inoltre la capacità cerebrale dello zinjantropo è di 530 centimetri cubici, mentre quella dell'Homo abilis è di circa 700 centimetri cubici, cioè la metà della capacità cerebrale media dell'uomo attuale. Anche negli australopiteci meno antichi dello zinjantropo essa si aggira sui 600:_700 centimetri cubici. Un'altra constatazione importante è che sia l'Homo abilis, sia lo zinjantropo e gli altri australopiteci erano già bipedi, ossia che già circa 2 milioni di anni fa essi avevano la stazione eretta che è caratteristica dell'uomo.
E c'è di più: questi ominidi rappresentano la fase di transizione fra l'animale e l'umano, perciò si possono considerare come i primi rappresentanti dell'umanità. La loro capacità cerebrale era, come si è detto, circa la metà di quella dell'uomo attuale, cioè paragonabile a quella del gorilla; ma superava sensibilmente quella dello scimpanzè (450 centimetri cubici) del quale avevano pressappoco le stesse dimensioni. Anche la loro dentatura presentava, accanto a caratteristiche primitive, alcune conformazioni già indiscutibilmente umane.
Gli indizi della loro attività intelligente - un primo barlume di quello che sarà il formidabile sviluppo del pensiero umano - sono costituiti dalle ossa di animali e dalle pietre, le une e le altre intenzionalmente scheggiate, trovate nelle stesse regioni e negli stessi terreni che contenevano i loro resti. Quelle ossa e quelle pietre molto rozzamente lavorate formano la cosiddetta pebble culture (cultura del ciottolo) e sono gli utensili più antichi fino a oggi conosciuti. Sembra non esservi alcun dubbio che l'Homo abilis e gli australopiteci furono i primi artigiani. E benché la loro capacità cerebrale fosse ancora molto inferiore a quella dell'uomo attuale, essi rappresentano una tappa decisiva, forse quella iniziale nel cammino che conduce all'umanità.
Risalendo ancora l'albero genealogico della specie umana, si trova, fra i 600 mila e i 300 mila anni fa, il pitecantropo, il cui primo esemplare fu scoperto nel 1891 nell'isola di Giava; molti altri ne sono stati trovati fino ad oggi. Uno di essi è stato scoperto di recente in Ungheria, presso Budapest: questo reperto dimostra che il gruppo dei pitecantropi era diffuso non solo nelle regioni calde dell'Asia e dell'Africa centrale, ma anche in Europa nel pieno del periodo glaciale, precisamente durante la terzultima glaciazione cioè da un milione a 300 mila anni fa. Il pitecantropo aveva una tecnica già relativamente evoluta per scheggiare le pietre e disponeva di una grande conquista: faceva uso del fuoco.
Dopo il pitecantropo viene l'uomo di Neanderthal che visse da circa 300 mila a circa 10 mila anni fa in tutta Europa e in molte regioni asiatiche e africane. La sua prima scoperta avvenne nel 1856 a Neanderthal, presso Düsseldorf, in Germania. Questo ominide ha una fama di «bestialità» che risale al secolo scorso e che rievoca le accese polemiche fra evoluzionisti e antievoluzionisti. I numerosi ritrovamenti avvenuti negli ultimi 100 e più anni permettono di ricostruire il suo aspetto in modo abbastanza preciso.
L'uomo di Neanderthal era relativamente basso (da m. 1,55 a m. 1,60) e aveva una stazione del tutto eretta. Il suo cranio era grosso, largo, basso, con un occipite molto sviluppato, e aveva un volume cerebrale da 1.300 a 1.600 centimetri cubici, corrispondente a quello dell'uomo attuale. Ma il cervello presentava caratteristiche ancora primitive: era piuttosto appiattito, meno sviluppato nella regione frontale, più largo in quelle temporali e occipitale. Questa struttura cerebrale mostra che le aree sensorie e motorie predominavano su quelle frontali dette «associative». Si può quindi ritenere che nell'uomo di Neanderthal le facoltà intellettuali fossero minori che nell'uomo attuale. Ma il suo sviluppo cerebrale doveva essere evoluto a sufficienza per consentirgli di dominare largamente gli animali (infatti la sua principale attività era la caccia) pur essendo, sul piano dell'istinto, più vicino a essi di quanto lo sia l'uomo attuale.
Benché perfettamente eretto, proporzionato e dotato di un cervello paragonabile al nostro, l'uomo di Neanderthal era molto diverso da noi come aspetto esteriore, soprattutto a causa della grossa testa, della nuca molto sporgente e del mento rientrante. Ma molte sue caratteristiche potrebbero farlo annoverare fra gli antenati diretti dell'uomo. Nel neanderthaliano sono evidenti minori differenze rispetto all'uomo che al pitecantropo. L'uomo di Neanderthal conosceva tecniche progredite per la scheggiatura della pietra e, nonostante il suo aspetto che oggi può apparire «bestiale», possedeva una psicologia già decisamente umana perché seppelliva i suoi morti, dimostrando così di avere concezioni animistiche o religiose.
Ai neanderthaliani subentrarono, circa 80 mila fa, ominidi con caratteri misti fra l'uomo di Neanderthal e l'Homo sapiens, cioè l'attuale. Poi, fra i 50 mila e i 30 mila anni fa, neanderthaliani e neanderthaloidi lasciarono il posto ai neoantropi, ossia a uomini che si possono considerare del tutto simili a noi, appartenenti all'Homo sapiens. Questi nostri antenati idearono tecniche raffinate per la scheggiatura della pietra, la lavorazione delle ossa, la preparazione della ceramica e svilupparono (probabilmente a scopo magico-religioso) forme artistiche culminanti negli affreschi della grotta di Altamira, in Spagna.

L'ANTENATO PIU' ANTICO

L'uomo di Neanderthal fu considerato per lungo tempo come l'«anello mancante» della catena evolutiva fra l'Homo sapiens e le sue forme inferiori: dal pitecantropo sarebbe derivato il neanderthaliano, e da questo l'uomo attuale. Oggi gli studiosi si sono resi conto che questa interpretazione è troppo semplicistica. Le scoperte degli ultimi decenni sembrano indicare che l'Homo sapiens deriva da un ramo diverso, anteriore ai primi neanderthaliani, e che l'uomo di Neanderthal rappresenta un ramo estinto di ominidi. Il neanderthaliano fu certamente contemporaneo dell'Homo sapiens, come dimostra fra l'altro il fatto che la sua arte di tagliare la pietra migliorò di colpo quando esso entrò in contatto con i neoantropi dotati di tecniche migliori. Poi l'uomo di Neanderthal scomparve bruscamente, lasciando l'Homo sapiens unico protagonista della preistoria e infine della storia.
Molti studiosi suppongono che, specialmente in Europa, l'Homo sapiens invase i territori dell'uomo di Neanderthal, e che dopo alcuni millenni di coesistenza niente affatto pacifica, distrusse il suo simile più primitivo. Ma fino a oggi non è stata trovata alcuna prova di questo genocidio preistorico. Più probabile sembra invece l'ipotesi (avvalorata dalla scoperta di neanderthaloidi) che per un certo tempo vi furono incroci fra Homo sapiens (o pre-sapiens) e uomo di Neanderthal. La loro separazione «razziale» non sarebbe stata dunque tanto assoluta come potrebbe sembrare. Se così avvenne, bisogna ammettere che anche l'uomo di Neanderthal partecipò all'ascesa dell'Homo sapiens, alla sua evoluzione biologica.
Ma qual è allora il nostro più lontano e più diretto parente? A questo interrogativo fondamentale gli studiosi non sanno ancora dare una risposta precisa.
L'origine dell'umanità resta misteriosa. L'ipotesi più suggestiva è quella di Leakey: l'antenato più antico e più diretto dell'uomo è l'Homo abilis che visse per oltre un milione di anni; infatti i suoi resti sono databili fra 1.800.000 e 400 mila anni fa. Ciò significa che egli esistette prima, durante e dopo lo zinjantropo di cui, secondo Leakey, non disdegnava di fare pasto.
La scoperta dell'Homo abilis rinforza l'opposizione contro l'opinione che «l'uomo discende dalla scimmia». Già nel 1926, il biologo olandese Bolk faceva notare che il cranio umano non è morfologicamente più evoluto di quello della scimmia, ma rappresenta uno stadio più primitivo: l'uomo assomiglia più a una scimmia neonata che ad una adulta. Da questa osservazione, Bolk dedusse la teoria della «fetalizzazione», secondo la quale l'uomo non discenderebbe da una scimmia, ma da uno stadio fetale scimmiesco. Egli sarebbe in certo qual modo una scimmia nata anzi termine, stabilizzato in questa forma fetale e diventato capace di riprodursi.
Nel 1939, lo zoologo belga Bernard Heuvelmans affermava la necessità di respingere ogni concetto di una filiazione diretta dalle scimmie e dagli «uomini-scimmia» fossili all'Homo sapiens. Egli si basava sia su osservazioni di anatomia comparata, sia sullo studio dello sviluppo individuale delle scimmie e degli uomini: secondo Heuvelmans, le mascelle sfuggenti e le arcate sopraccigliari salienti che caratterizzano non solo le grandi scimmie viventi, ma anche gli australopiteci e i neanderthaliani, sono tratti di specializzazione, cioè segni evolutivi.
Infatti lo sviluppo della giovane scimmia conferma il senso di tale evoluzione. Già alla fine del Settecento, il naturalista francese Cuvier notava che «in giovane età la scimmia ha la fronte larga, il muso poco prominente, il cranio rotondo; caratteristiche che poi perde crescendo». Si può quindi dire che, alla nascita, la scimmia presenta particolarità umanoidi destinate a scomparire. Ora, se l'uomo discendesse dalla scimmia, rappresenterebbe non una evoluzione, ma una involuzione morfologica rispetto allo sviluppo di questo suo presunto antenato.
All'inizio del capitolo si è detto che l'uomo e la scimmia sono il risultato di due rami evolutivi divergenti da un ceppo comune, cioè da un animale ancora ignoto vissuto circa 35 milioni di anni fa. Ma il ramo degli ominidi è tutt'altro che rettilineo perché si divise in altri rami collaterali che si estinsero ad uno ad uno, mentre uno solo continuò la sua evoluzione fino all'attuale Homo sapiens. I pitecantropi e i neanderthaliani sono morfologicamente «più evoluti» (nel senso indicato da Heuvelmans), per esempio nella mascella, rispetto all'Homo sapiens; ma appartengono a rami estinti nell'albero genealogico degli ominidi. E così anche i loro predecessori, gli australopiteci.
Resta l'Homo abilis, questo essere dalla testa rotonda, dalle mascelle relativamente piccole, dalla stazione eretta, il più antico e il più durevole degli ominidi, quello che, morfologicamente, più ci assomiglia. Non si può ancora affermare che sia il nostro antenato diretto; inoltre si ignora totalmente quali forme siano derivate dall'Homo abilis. Ma il fatto che egli fu contemporaneo di un altro ominide, lo zinjantropo, dimostra che è errato fare discendere l'Homo sapiens direttamente dagli australopiteci, passando per i pitecantropi e i neanderthaliani. Sembra più plausibile ritenere che varie specie di ominidi abbiano coesistito nel corso dell'ultimo milione e mezzo di anni, eliminandosi forse a vicenda. E in conclusione, avrebbe trionfato la specie meno specializzata morfologicamente, ma più adattabile: quella dell'Homo sapiens.
Gli scavi alla ricerca dei progenitori dell'umanità, degli anelli ancora mancanti nella catena della nostra evoluzione biologica, continuano in tutto il mondo, soprattutto in Africa dove le scoperte degli ultimi anni - e in particolare quella dell'Homo abilis - sembrano confermare l'ipotesi secondo cui quel continente fu la culla della specie umana. Il suo primo assertore fu, nel secolo scorso, Charles Darwin, il biologo e naturalista inglese fondatore della teoria evoluzionistica che porta il suo nome. Nuove sorprese non sono da escludere; comunque le acquisizioni più recenti hanno già costretto gli studiosi a compiere ampie revisioni della preistoria umana e sembra che almeno due nuovi concetti fondamentali siano destinati a non trovare smentita: che l'uomo non discende dalla scimmia e che i suoi primi antenati risalgono a circa 2 milioni di anni fa.
L'Homo sapiens è dunque quello che forma l'umanità attuale. Ma tale classificazione zoologica non spiega il fatto che l'umanità è formata da varie razze e, in particolare, è ancora divisa dal fenomeno del razzismo. Sull'origine delle razze, le opinioni degli antropologi sono molto incerte e discordi. Certo è, invece, che la separazione razziale, anche quando non culmina nel genocidio perpetrato dal nazismo contro gli ebrei (che non formano una razza) o non assume l'evidenza esasperata dell'apartheid sudafricana, è in atto nel mondo intero. L'enorme balzo in avanti compiuto dalla scienza e dalla tecnica negli ultimi decenni non ha scosso il pregiudizio secondo il quale esisterebbero razze «superiori» e razze «inferiori» destinate a restare divise da confini reali e invalicabili.

LE DIFFERENZE RAZZIALI

Le razze umane attuali presentano senza dubbio tali differenze di forma, struttura, proporzioni, funzionamento fisiologico e psichico, da giustificare in primo momento (cioè a un esame superficiale e sommario) l'impressione che l'umanità sia formata da gruppi etnologici a se stanti e, sotto molti aspetti, estranei gli uni agli altri. Si pensi, per esempio, alle differenze che passano tra alcune razze selvagge odierne (come i pigmei e gli ottentotti) e le razze civili. Ma la diversità che distingue i gruppi umani è davvero irriducibile?
Occorre anzitutto tenere presente che gli stessi studiosi di antropologia e di etnologia non sono d'accordo per ciò che riguarda la classificazione delle razze umane: alcuni parlano di 3 sole razze (i bianchi, i neri e i gialli), altri di 5 (caucasoidi, negroidi, mongoloidi, australoidi e indoamericani); altri ancora elencano ben 30 razze umane. Certo è che il termine razza non va affatto inteso nel senso di «razza pura» (che non esiste). Esso serve soltanto a designare un vasto raggruppamento etnico che, come tutte le cose viventi, non è statico, ma in continua trasformazione. Del resto, studi comparativi molto estesi e minuziosi hanno dimostrato che le differenze razziali, anche le più considerevoli, sono soltanto quantitative.
Prendiamo, per esempio, il colore della pelle: tra gli uomini di razza bianca, gialla e negra si trovano tutte le gradazioni intermedie, non solo tra le differenti razze, ma spesso nell'ambito di un medesimo sottogruppo razziale. Le stesse osservazioni si possono fare per il colore dei capelli e degli occhi, per la forma della testa, del naso e di altre particolarità morfologiche che pure caratterizzano i vari tipi razziali. Anche i muscoli presentano sensibili differenze di razza, ma pur esse quantitative o di frequenza. Lo stesso si può dire riguardo alla conformazione dei denti e di alcuni organi interni.
La capacità cranica oscilla, negli uomini di tutte le razze, da minimi individuali di 790 centimetri cubici, a massimi, pure individuali, di oltre 2.000 centimetri cubici, passando però per tutti i valori intermedi. Differenze razziali di una certa entità si sarebbero riscontrate nella forma e nella struttura del cervello: ma anche queste riguardano la frequenza di certe particolarità (come le circonvoluzioni e i solchi), non già la presenza di conformazioni del tutto nuove o esclusive.
Pure per ciò che concerne i fenomeni fisiologici, si tratta di differenze quantitative o di frequenza, spesso dipendenti da fattori ambientali. Per esempio, il diverso ritmo della crescita, il differente periodo della pubertà, del climaterio e della senescenza, il diverso funzionamento ormonico e metabolico non sono tali da giustificare una netta separazione dei gruppi umani, perché queste differenze si possono incontrare in diversi individui di una medesima razza, e le differenze tra le varie razze sono soltanto di tipo medio. Una delle più importanti indagini in questione riguarda i gruppi sanguigni: ebbene, si è costatato che la differenza nelle diverse razze è solo quantitativa o di percentuale, perché i gruppi sanguigni sono rappresentati in tutti i tipi razziali. In pratica, un bianco può donare il proprio sangue a un negro e viceversa, perché non esiste incompatibilità di sangue in senso razziale.
Ma l'argomento più decisivo della comune parentela fra tutti gli uomini, è quello dell'interfecondabilità delle razze. Infatti le unioni finora osservate fra razze umane anche diversissime hanno dato ibridi fecondi. Ciò significa che tutte le razze umane appartengono alla medesima specie. Falso è anche il pregiudizio che gli ibridi siano un prodotto peggiorativo: spesso anzi essi risultano superiori ai genitori. La biologia ha dimostrato che i geni (le unità ereditarie) di una razza sono, al 99%, identici a quelli di qualsiasi altra razza. Ciò significa che fra tutte le razze umane, anche tra quelle che per certi aspetti esteriori sembrano le più diverse e lontane, le differenze reali sono poche e di importanza secondaria.
Le stesse diversità psichiche tra razza e razza sono sempre quantitative, mai sostanziali o qualitative. Non vi è dubbio che tutte le razze umane attuali hanno una psiche essenzialmente eguale. Un etnologo di fama mondiale, il professor Lévy-Bruhl, riconobbe che «la mentalità dei primitivi è della stessa natura di quella degli altri popoli; lo spirito dei primitivi non è diversamente conformato dal nostro». Ciò è stato confermato anche dalla moderna psicologia del profondo, soprattutto dagli studi e dalle ricerche compiute dal più illustre allievo di Freud, lo svizzero Carl Gustav Jung.
Tutti gli uomini si presentano dunque, per i loro caratteri morfologici, fisiologici e psichici, come una unica grande famiglia, che ha avuto una storia assai lunga, ha subito notevoli trasformazioni, e si è divisa e suddivisa in tanti gruppi minori e caratteristici.
Ed è una famiglia ancora incapace di accomunarsi proprio a causa di differenze somatiche riassumibili in una sola: il colore della pelle. Si tratta di un carattere della pigmentazione che si associa con molti altri elementi antropologici.
Il colore di una razza non proviene dall'azione diretta dell'ambiente: così, ad esempio, non è affatto vero che i negri hanno la pelle nera perché esposti al sole molto più dei bianchi. Il colore della pelle è invece il prodotto di fenomeni genetici (mutazioni) sorti spontaneamente nell'umanità primitiva, selezionati dall'ambiente, fissati da sistemi di incroci, consanguineità, ecc., di cui quasi niente si sa. Il colore della pelle fa dunque parte delle estrinsecazioni dei patrimonio ereditario, perciò si trasmette senza variare nelle unioni fra individui di una stessa razza (endogamia) e si diluisce nelle unioni fra individui di razza diversa (esogamia) cioè nei loro prodotti, i mulatti.
Ebbene, l'umanità attuale tende a insistere sulla differenziazione razziale oggi esistente, e la dimostrazione più valida è che la scelta matrimoniale si basa, prima ancora che sul ceto sociale, sulla discriminazione razziale. La domanda tipica che il razzista rivolge all'antirazzista è: «Permetteresti che tua figlia sposasse un negro?». Ma non esiste soltanto un razzismo bianco. C'è anche un razzismo giallo e un razzismo nero. Per esempio, fra i giapponesi, la differenza fra gruppi con pelle chiara e gruppi con pelle scura è coscientemente sentita e mantenuta; in India, dove le caste si sono differenziate largamente anche in base al colore, gli annunci matrimoniali pubblicati dai giornali insistono sul colore chiaro della pelle della donna. Questi due esempi dimostrano l'esistenza di una forma di razzismo bianco fra popolazioni asiatiche.

IL FUTURO DELL'UMANITÀ

Il razzismo nero è di nascita recente. Da una parte viene teorizzato in alcuni ambienti di negri degli Stati Uniti come reazione alla segregazione loro imposta dai bianchi; dall'altra si sta affermando in Africa come reazione al colonialismo e, in nome dell'idea panafricana, tende a comprendere in un solo gruppo popolazioni molto diverse non solo per il colore più o meno scuro della pelle, ma anche per molti altri caratteri ereditari. Pure in Africa non mancano esempi di razzismo interrazziale: i vatussi che considerano inferiori le altre popolazioni negre, tribù congolesi che ritengono «non completamente uomini» i pigmei, e così via.
Esistono tutte le premesse biologiche perché, come preconizzano genetisti molto qualificati, l'umanità del futuro possa fondersi e omogeneizzarsi fino a livellare ogni differenza di razza, creando così su tutta la Terra un solo tipo umano unico che riassumerebbe tutti i caratteri della nostra specie. Ma questa visione appare oggi utopistica perché alla sua realizzazione si oppongono, non solo la tenace diffusione dei pregiudizi razziali più o meno dichiarati, più o meno consapevoli, ma anche un vero e proprio «blocco» psicologico, di natura arcaica, inconscia, che pure all'uomo evoluto e spregiudicato riesce difficile rimuovere, razionalizzare. Sotto questo aspetto, l'uomo moderno è ancora immaturo, prigioniero di una mentalità primitiva.
Non bisogna però combattere il pregiudizio razziale in nome di una male intesa eguaglianza. Quando si parla di ciò, si allude solo a una eguaglianza di sentimenti e di bisogni elementari, di diritti e di doveri, contro ogni privilegio sociale o di stirpe. In questo senso gli uomini sono tutti fratelli. Ma la dissimiglianza delle razze (quantitativa, come si è detto) è un fatto innegabile. Ciò non significa che soltanto alcune di esse siano in grado di produrre in esclusiva individui più evoluti. Non è prerogativa di nessuna razza in particolare avere il monopolio degli uomini di genio.
Al di là di ogni distinzione di colore, i popoli, come gli individui, non sono mai eguali; e fra essi vi sono sempre differenze di sviluppo. È giusto rimuovere l'ineguaglianza delle condizioni in cui gli uomini sono chiamati a crescere e a progredire; ma questa opera di fratellanza non renderà mai gli uomini eguali. Si tratta di una impossibilità che, prima di ogni altra cosa, è biologica, propria della natura umana e non umana. L'idea di un livellamento, sia pure di tipo superiore, è incompatibile con le leggi stesse della vita.
Al termine di ogni studio sulle origini umane, una serie di domande si impone. L'uomo può evolversi nell'avvenire come si evolse nel passato? Oppure vi sono valide ragioni per ritenere che la sua evoluzione è terminata? E se esistono forze evolutive che agiscono ancor oggi sull'uomo, quali sono e in quale misura è possibile prevedere i loro effetti?
Nel mondo vegetale e animale, cambiamenti evolutivi si sono verificati, si può dire, sotto i nostri occhi. I più significativi e i più recenti si collegano con il problema della diminuita efficacia di alcuni antibiotici, cioè con il fatto che molti batteri sono diventati resistenti alla loro azione. Si tratta di una resistenza di natura genetica, ereditaria. All'inizio, i batteri geneticamente resistenti erano una esigua minoranza. Ma dopo che i ceppi batterici non resistenti sono stati eliminati dagli antibiotici, questa minoranza, sopravvivendo e moltiplicandosi, ha finito col prevalere. Modificazioni di tal genere - riscontrabili nel volgere di pochi anni perché le generazioni batteriche si succedono in un tempo enormemente più rapido che quelle degli organismi vegetali e animali più complessi - appaiono come i rudimenti di una evoluzione più vasta, che agisce tuttora sull'intera natura vivente, ma i cui effetti sono riscontrabili lungo migliaia, lungo milioni di anni.
Mutamenti evolutivi della stessa natura sono certamente avvenuti più di una volta nella storia umana. Lo sviluppo, poi la regressione di certe malattie possono essere considerati sotto questo punto di vista. Ma si tratta di mutamenti relativamente poco importanti. La questione maggiore è di sapere se l'uomo può ancora evolversi naturalmente, e se la scienza sarà in grado di farlo evolvere più in fretta, anche fuori dai «disegni» della natura. La risposta può essere affermativa.
Le condizioni necessarie per una ulteriore evoluzione, sia naturale sia artificiale, esistono. La diversità genetica, la variabilità genetica, è grande nella specie umana, come dimostra il fatto che ogni essere umano differisce geneticamente da ogni suo simile è un individuo unico e irrepetibile. Inoltre, come dicono gli zoologi, «l'uomo ha una struttura non specializzata» (e in ciò sembra risiedere, come si è accennato, la sua sopravvivenza sugli ominidi), vale a dire una struttura che non lo vincola a un modo particolare di vita. L'uomo è dunque in grado di evolversi. Ma in quale senso tale evoluzione potrà compiersi?
Non è possibile prevederne il tempo e il modo, se essa dovesse continuare a svolgersi spontaneamente come nel passato. Ma oggi la scienza ha i mezzi per affrettarla e dirigerla al di fuori dagli schemi della natura. Uno di questi mezzi, largamente applicato nell'allevamento di piante e animali, potrebbe essere la selezione artificiale, ossia la scelta e l'incrocio degli individui meglio dotati, in modo da ottenere una generazione geneticamente «superiore». Ma si tratta di un sistema coattivo, o accettabile soltanto da ideologie razziste, di cui il nazismo fu l'esempio storicamente più vicino. Inoltre vi è da osservare che, in campo umano, la selezione artificiale non agirebbe, come si può supporre, in senso evolutivo.
Per chiarire questo concetto, basta un semplice esempio. Come si è avuto occasione di dire da un padre a da una madre con occhi scuri non nascono necessariamente bambini con occhi scuri. Poiché il gene degli occhi bruni è dominante rispetto al gene degli occhi azzurri, ciascuno dei due genitori può avere, nel suo patrimonio ereditario, sia il gene degli occhi bruni, sia quello degli occhi azzurri. Ora, un individuo che ha ricevuto lo stesso gene (per esempio quello degli occhi bruni) tanto dal padre quanto dalla madre, è detto omozigote rispetto a quei due geni eguali. Se invece ha ricevuto geni diversi - uno bruno e uno azzurro - si chiama eterozigote, rispetto a quei due geni differenti.
Le tecniche di allevamento e di selezione delle razze pure di piante e animali - le quali sono omozigote non solo per ciò che riguarda il colore, ma anche per moltissime altre caratteristiche ereditarie - hanno diffuso l'opinione che gli individui «puri», cioè omozigoti, siano meglio dotati. Questo può essere vero quando si tratta di «esasperare» a scopi pratici, cioè di sfruttamento, certe caratteristiche particolari: per esempio, la resistenza di una pianta al freddo, la capacità di un albero di produrre frutti più grossi, di una pecora di dare lana più lunga, di un cavallo di correre più velocemente.
Ma dal punto di vista dell'evoluzione biologica, la razza «pura» costituisce un arresto, un livellamento, una forma di stabilità e di uniformità. L'esperienza mostra invece che un individuo nel quale geni diversi bilanciano la loro azione - ossia un eterozigote - appare meglio dotato di un omozigote. Un esempio molto comune: un cane di razza pura è generalmente più delicato e meno intelligente di un cane bastardo; fra i due, il più resistente, quello in grado di adeguarsi meglio ai mutamenti ambientali e il meno «specializzato», cioè il bastardo.
Sono gli eterozigoti, cioè i meglio dotati, dal punto di vista biologico, che impediscono alla selezione naturale di mantenere stabile e uniforme una popolazione; e ciò perché gli eterozigoti hanno una discendenza che non è stabile né uniforme. Inoltre bisogna abbandonare l'idea che gli organismi meglio adattati possano diventare il tipo predominante: poiché, geneticamente parlando, sono di costituzione ibrida, producono continuamente individui diversi da loro. Ecco perché, in campo umano, la selezione artificiale si rivelerebbe illusoria: i «pianificatori» sarebbero continuamente frustrati nei loro tentativi di ottenere un tipo umano ideale.
La superiorità degli eterozigoti - quando esiste, perché non si tratta di una legge assoluta - è ancora inspiegabile per la genetica. Talvolta è possibile discernere ragioni speciali che chiariscono, in casi molto particolari, perché un eterozigote è avvantaggiato. Ma per spiegare come mai questo vantaggio è così frequente, si può tenere presente una ragione generale: una specie vivente, i cui componenti devono affrontare un ambiente mutevole nel tempo e nello spazio, tende ad acquistare un sistema genetico dotato di una certa ineguaglianza, quindi una diversità. È questa la soluzione adottata dalla maggior parte degli organismi, e da quello umano in particolare. Nessuna specie vivente perfeziona il suo adattamento al punto da sacrificare totalmente la sua adattabilità. E se un alto grado di diversità innata si mantiene, ciò avviene perché questo è il mezzo naturalmente più economico e più agevole di assicurare l'adattabilità.
Nella storia della vita, misurabile a miliardi di anni, il problema dell'adattabilità ha trovato di recente una soluzione del tutto nuova; una soluzione che tende a compensare quelle «ineguaglianze» della nascita e quelle imperfezioni che prima non restava altro che subire. Non si tratta più di migliorare direttamente la specie, bensì il proprio ambiente. È la soluzione, è il compito dell'uomo e della sua civilizzazione, che per mutare a proprio vantaggio le condizioni ambientali, soprattutto negli ultimi secoli hanno trasformato profondamente il volto della Terra.
Gli esempi sono innumerevoli, perciò basta riferirsi a uno dei più comuni. Un tempo, quando sopraggiungevano i rigori dell'inverno e la necessità di superare i periodi di carestia, gli individui piuttosto grassi si trovavano in vantaggio. Ma oggi è noto che un eccesso anche non esagerato di grasso accorcia notevolmente la durata dell'esistenza. Ebbene, il miglioramento delle condizioni di vita permette ormai l'abbandono di quell'accumulo di grasso, una volta vantaggioso, consentendo così un aumento della longevità media.

L'EREDITÀ NON GENETICA

Questo esempio dimostra che, anche nell'uomo, la natura si trovava costretta a compromessi spesso contraddittori, obbligata come era a conservare un carattere genetico o una condizione acquisita fondamentalmente sfavorevoli, ma legati a determinate resistenze alle condizioni ambientali. Ora tutti i vantaggi della civiltà, non obbligando più l'uomo a combattere con le risorse naturali del proprio organismo il freddo, la fame, l'estrema fatica, rendono inutili numerose predisposizioni genetiche. E questa loro mancanza di impiego può provocare la liberazione di altre predisposizioni prima «compresse». Ad esempio, sul piano intellettuale: la selezione naturale degli individui più intelligenti ha oggi una possibilità di azione di gran lunga maggiore.
Ecco uno degli indizi che permette di cogliere uno dei maggiori aspetti dell'evoluzione umana: un accrescimento quantitativo, se non qualitativo, dell'intelligenza. Migliorando il suo ambiente, l'uomo risolve dunque, in un modo del tutto nuovo, il problema dell'adattabilità e contemporaneamente si evolve. Si tratta della soluzione più umana nel senso migliore della parola.
Ma l'uomo dispone anche di un sistema ereditario interamente originale, che però non ha niente di genetico. È un sistema che gli permette di agire sulla posterità con mezzi che non riguardano i cromosomi, i geni, l'ADN. È un nuovo genere di evoluzione biologica che differisce sensibilmente da quella che si è svolta attraverso le epoche geologiche, nel corso di alcuni miliardi di anni.
Per rendersi conto di questo sistema ereditario, che ha aumentato di colpo le possibilità e le potenzialità evolutive umane, si può fare riferimento al lamarkismo, ossia alla teoria dell'eredità dei caratteri acquisiti elaborata agli inizi del secolo scorso dal naturalista francese G.B. Lamarck, uno dei maggiori pionieri dell'evoluzionismo. Il lamarkismo può essere considerato, nella maggior parte delle sue forme, come una teoria «istruttiva», nel senso che essa sostiene che, in un modo o nell'altro, l'ambiente può fornire istruzioni agli esseri viventi, e che queste istruzioni, debitamente assimilate, possono essere trasmesse alle generazioni seguenti.
Ma tutte le volte che si è tentato, da parte dei genetisti, di analizzare un fenomeno che poteva apparire lamarchiano, si è riscontrato che non lo era affatto. Fino a oggi, dunque, non si è avuta alcuna conferma indubitabile che l'ambiente fornisca agli esseri viventi informazioni che si inseriscono nel loro patrimonio ereditario e quindi diventino geneticamente trasmissibili. Lo stesso si può dire riguardo allo sviluppo degli organismi: le istruzioni genetiche esistono già nell'embrione; solo la loro successiva realizzazione viene a trovarsi sotto l'influsso dell'ambiente.
Straordinaria apparirebbe perciò, sotto tale aspetto, l'esistenza di un organismo che potesse effettivamente ricevere istruzioni dall'ambiente. Ebbene, questo organismo è il nostro, perché possiede un organo in grado di ricevere istruzioni dall'esterno: il cervello, dotato di attività e proprietà che non si riscontrano nel cervello di nessun altro animale. Le zone associative della corteccia cerebrale umana possono reagire a stimoli istruttivi, ossia l'uomo è dotato di una elevatissima capacità di apprendimento.
Se la faccenda fosse tutta qui, potremmo certamente vivere con più successo di ogni altro animale. Però, alla nostra morte, i nostri discendenti dovrebbero ricominciare tutto daccapo. Ma il nostro apprendimento non è limitato come quello di altri esseri viventi, sia pure altamente organizzati. Noi abbiamo la coscienza, il pensiero, la parola, la scrittura, elaboriamo immagini concrete e astratte, la nostra memoria è formidabile, possediamo tecniche di insegnamento, nella storia umana le tradizioni nascono e si perpetuano oralmente oppure attraverso la stampa, il telefono, la radio, la televisione, mediante le arti musicali e figurative. Oggi vengono elaborate teorie della forma e dell'informazione per meglio insegnare, comprendere e apprendere, ricorrendo anche all'aiuto dei calcolatori elettronici.
È evidente che le informazioni trasmesse da un essere umano all'altro, o da una generazione a quella successiva, cambiano con il tempo: il bisavolo non insegnò al nonno quello che oggi un padre insegna al figlio. Ora, un sistema ereditario dotato di questa proprietà può essere considerato evolutivo, e di tipo lamarkiano, per così dire. L'uomo è dunque in grado di agire sulla sua posterità in un modo non genetico. Infatti è artificioso distinguere una evoluzione strettamente biologica da una evoluzione sociale, culturale o tecnologica: l'una e le altre sono evoluzioni di cui l'uomo, un essere biologico, un prodotto della natura, è il protagonista. Ma mentre l'una è genetica, le altre non lo sono.
La nostra nuova forma di evoluzione è dunque cerebrale e «lamarkiana». Infatti, se l'ambiente non può imprimere in noi informazioni genetiche, può fornirci però informazioni non genetiche che possiamo utilizzare, e lo facciamo. In questo caso, i caratteri acquisiti sono trasmissibili, sia pure al di fuori dai cromosomi. Tale evoluzione prettamente umana è migliore di quella genetica che determina il destino di ogni essere vivente. L'evoluzione cerebrale, nata sotto il segno della ragione, ci permette di sfuggire, sia pure parzialmente, alla indeterminatezza, alla casualità, ai compromessi e agli errori dell'evoluzione genetica. L'evoluzione promossa dal cervello umano è, in effetti, una rivoluzione che procede a ritmo accelerato e nella quale l'uomo trova finalmente la possibilità di rinnovarsi, non più l'attesa di essere rinnovato.
Ciò comporta enormi responsabilità individuali e collettive non solo nei confronti della specie umana, ma della stessa natura da cui l'uomo è sorto e della quale continuerà a far parte. Possiamo dunque migliorare ciò che la natura ha fatto, in noi e intorno a noi. Le nostre possibilità di azione aumentano di giorno in giorno, grazie ai progressi della scienza e della tecnica. Ma ciò che sappiamo è ancora poco, perciò dobbiamo continuare ad esplorare questa natura, allargare le nostre conoscenze e la nostra comprensione - il che significa ampliare anche la nostra coscienza - per diventare sempre più padroni e responsabili del destino della nostra specie.
Di queste prospettive sul futuro dell'uomo si è reso interprete uno dei maggiori biologi del nostro tempo, l'inglese P.B. Medawar. Ora ci si può chiedere: «La scienza sarà in grado di modificare la fisiologia e la psicologia dell'uomo?». Certamente, questa trasformazione è già iniziata, e gli esempi non mancano, dalla chirurgia che ha cominciato a sostituire organi ammalati con organi naturali o artificiali, alla farmacologia che già dispone di sostanze in grado di influire su varie funzioni cerebrali. La ricerca biologica si è alleata con la meccanica e con l'elettronica, allo scopo di creare apparecchiature in grado di aiutare o sostituire varie funzioni organiche.
La biologia cerca di comprendere i processi di adattamento riscontrabili in altre forme di vita per applicarli all'uomo: metterlo in condizione di rigenerare un organo, invece di sostituirlo con uno di ricambio; ridurre il suo consumo di ossigeno a quello di uno «sherpa» dell'Himalaya; consentirgli di sopportare il calore come un fachiro che cammina sulle braci; restare a lungo in stato di vita sospesa per mezzo dell'ibernazione artificiale; utilizzare a fondo ll suo cervello mediante stimolazioni chimiche ed elettriche. Ma l'obiettivo più ambizioso della biologia è quello di modificare il patrimonio ereditario umano agendo direttamente sull'ADN, sulla «molecola della vita».
Questa facoltà di modificare gli esseri umani susciterà pericoli immensi, perciò richiederà grande prudenza e senso di responsabilità. Fin da oggi bisogna tenere in considerazione quella «morale biologica» che Jean Rostand (il famoso biologo francese) così riassume: essere il più uomo possibile, sviluppare le qualità propriamente umane e, per questo, essere il meno bestiale, il meno infantile, il meno nevrotico possibile, per meritare completamente il nome di homo sapiens. E non è tutto: se la biologia, osserva Rostand, pone in luce ciò che nell'uomo è il lato più umano, essa potrà, allo stesso modo, guidarci nella preparazione razionale del sovrumano.
 

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